sabato 2 gennaio 2010

VINCERE: la recensione


Apro il mio dizionario del cinema Morandini 2010. Nuovo fiammante. La mia Bibbia personale da almeno dieci anni. Una Bibbia da rispettare e (talvolta) da criticare. Tra i film usciti nell'arco del 2009, Morando-Laura-e-Luisa hanno concesso le ben note 5 stellette (il massimo possibile) a due pellicole soltanto: Gran Torino di Eastwood e Vincere di Bellocchio. Il primo me l'ero visto al cinema; il secondo l'ho visto ieri sera a casa di Cacile e Fabio.


Vincere è un bel film. Ma non è un capolavoro. La storia di Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini che combatte per far valere i diritti suoi e del suo primogenito Benito Albino nei confronti di un Duce irriconoscente e 'smemorato' è la parabola oltre che di una vita, di un'intera generazione di donne costrette a recitare la parte di silenziose subordinate. Bellocchio gira il suo film più femminista, quello più smaccatamente anti-italiano, il più erotico. 25 anni d'Italia raccontati dalla parte dello spettatore: il popolo inerme costretto a vivere le faccende del Bel Paese attraverso il filtro dello schermo dei ginegiornali. Il regista usa in maniera sapiente tutto questo materiale storico-visivo (un effetto Tornatore è quasi inevitabile) per raccontare il geometrico allontanamento di due esistenze finché sulla scena non resta una donna sola senza più alcuna dignità e un bianco busto di marmo dai grossolani lineamenti del dittatore. Timi è bravo ad impersonare un Mussolini coi capelli e i baffetti curati; con gli occhi spiritati e il colletto della camicia inamidato; un Mussolini di carne che neppure a metà del film scompare: quando lo vediamo riapparire nel finale, Timi veste i panni di un altro, del figlio Albino, capelli da una parte e personalità incerta. Giovanna Mezzogiorno è bravissima; è lei l'anima del film; lei, splendido giocattolo sessuale prima, volto sconvolto e sconfitto dopo, nel lungo primo piano-sequenza dell'interrogatorio.


Ma Vincere, dicevo, non è un capolavoro. Intanto la prima parte. I primi venti minuti del film sono noiosi. Almeno rispetto al resto. Troppi silenzi, troppi chiaroscuri, troppi amplessi. Sul versante onirico, poi, Bellocchio continua a non convincermi. Come in Buongiorno, notte, si fatica a cogliere i sottintesi e certe scelte appaiono forzate. Alcuni punti non vengono mai del tutto esplicitati e nel gioco di realtà e finzione (finzione del sogno, finzione delle proiezioni sul grande schermo) per uno spettatore che non conosca a fondo la Storia che lega i due personaggi non è facile collocare alcuni avvenimenti (ad esempio, donna Rachele faceva già parte della vita di Mussolini quando quest'ultimo incontra la Dalser, oppure no?). Interrogativi che a tratti rischiano di disorientare lo spettatore facendogli dimenticare che provare a rispondere ad una domanda del genere non serve a nulla. Quel che resta è comunque una donna distrutta che piange e ride commossa di fronte a Chaplin che riabbraccia il suo Monello.


LA SCENA CULT: La Dalser-Mezzogiorno si arrampica sulle sbarre del manicomio seguita a ruota dalle altre matte. Richiama l'attenzione di un gruppo di ragazzini che si aggirano fuori del muro di cinta e gli vomita addosso tutta intera la sua verità. Quindi li implora di diffondere le lettere che ha scritto, che tiene nella mano e che non vuole consegnare alla Madre Superiora. I ragazzini, dopo un momento di incertezza, mostrano il braccio destro alzato e iniziano a insultarla, intonando una canzone fascista. Ida lancia le lettere, una per una oltre le sbarre, ma non ha abbastanza forza e i fogli ricadono nel giardino del manicomio dove una suora meticolosa sta già facendo pulizia.

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