domenica 17 gennaio 2010

LA PRIMA COSA BELLA: la recensione


Una mamma ingombrante. Troppo bella, troppo ingenua, troppo innamorata della vita. Due ragazzini, anche loro innamorati di quel sorriso, di quell'abbraccio, dei suoi occhi. Dopo trent'anni Lei sta morendo e quei ragazzi, ora uomo infelice e donna felice (solo in apparenza), tornano al suo capezzale. Intorno a loro la vita passata, trascorsa, ri-raccontata attraverso i ricordi di una Livorno livida, color seppia, di provincia, così umana da sembrare la patria stessa dello spettatore. Il luogo al quale ritornare dopo essere fuggiti. La madre/la patria.

Il film di Virzì è commovente e divertente; il film di Virzì è davvero bello. Splendida la colonna sonora. Splendida la canzone simbolo: "la prima cosa bella/che ho avuto dalla vita/ è il tuo sorriso giovane sei tu". Simbolo, anch'essa, di un altro modo di cantare l'esistenza e le emozioni - quelle emozioni semplici che oggi sembra così difficile poter rivivere. Rabbia, gelosia, amore, passione, ingenuità, coraggio.

Il film di Virzì mi aiuta a ricordare, mi permette di fare paragoni con il passato entrandoci dentro. Mia madre, tra le tante foto conservate in una vecchia scatola di scarpe, ha tre piccole diapositive in bianco e nero scattate da una macchina automatica a pagamento. Nelle foto mi tiene in braccio davanti a sè e insieme guardiamo verso l'obiettivo sorridendo. E' giovane e felice, la mia mamma. Felice di tenermi stretto mentre fuori (lo si capisce da come siamo imbacuccati) fa freddo. Un ricordo splendido che mi è tornato alla mente guardando una scena del film. Quella in cui la Ramazzotti, scacciata con i figli da casa dal marito geloso in piena notte, salta sul pullman per raggiungere un riparo a casa della sorella. La canzone parte; i tre guardano l'obiettivo (il tema del film riempie l'aria): i loro occhi sono gli stessi di quelle diapositive.

La prima cosa bella è un film da vedere. Perchè parla di noi e sembra prenderci per mano per portarci a casa.

VOTO: 8,5

martedì 12 gennaio 2010

ADIEU MONSIEUR ERIC


Quando Parigi era il centro del Mondo e lo spazio angusto di una sala di proiezione il luogo ideale ove raccontare l'Epoca Nuova. La Nouvelle Vague. Un uomo, un intellettuale, corre lungo le vie che costeggiano la Senna. Poi si blocca: guarda ammirato due giovani abbracciati per la vita che si stanno baciando. Tira fuori la sua macchina da presa. E' di questo che vuol parlare, dice a se stesso: "E' di questo che parlerò".

ERIC ROHMER (Tulle, 4 aprile 1920 ; Parigi, 11 gennaio 2010)
"Il problema vero è non fermarsi alla rappresentazione della vita, ma cercarla dove nasce veramente: nelle parole dei ragazzi, nei brividi del cuore, nel formarsi di un'idea".

La Filmografia:
Il segno del leone - 1959
La collezionista - 1967
La mia notte con Maud - 1969
Il ginocchio di Claire - 1970
L'amore il pomeriggio - 1972
La marchesa von... - 1976
Perceval le gallois - 1978
La moglie dell'aviatore - 1981
Il bel matrimonio - 1982
Pauline alla spiaggia - 1983
Le notti della luna piena - 1984
Il raggio verde - 1986
L'amico della mia amica - 1987
Reinette e Mirabelle - 1987
Racconto di primavera - 1990
Racconto d'inverno - 1991
L'albero, il sindaco e la mediateca - 1993
Incontri a Parigi - 1995
Un ragazzo, tre ragazze... - 1996
Racconto d'autunno - 1998
La nobildonna e il duca - 2001
Triple agent - Agente speciale - 2004
Gli amori di Astrea e Celadon - 2007
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sabato 9 gennaio 2010

LA STRADA PERDUTA


Per Michele Anselmi ("Il Riformista") lo scandalo non c'è. Se, come purtroppo e probabilmente accadrà, The Road, il film di Hillcoat tratto dallo strepitoso romanzo di Cormac McCarthy (La strada) e interpretato da Viggo Mortensen, Charlize Theron e Robert Duvall, alla fine non troverà un distributore italiano perché trattasi di pellicola "troppo deprimente" non è il caso di fare drammi. Il consiglio di Anselmi evidentemente non è indirizzato soltanto a noi comuni spettatori, ma pure ai vari colleghi che con toni diversi hanno voluto "denunciare" lo strano destino di questa pellicola. E così sia Romagnoli di "Repubblica" che Langone di "Libero" sono presto liquidati, dipinti come gli ingenui di turno che non si rendono nemmeno conto di quanti soldi costi produrre e far uscire un film. Un film che è stato un flop in America e che sarebbe quindi una follia immettere nel nostro mercato. Bah!

In realtà, e volendo rispettare il punto di vista di Anselmi, il problema è davvero un altro. E in parte è contenuto nella prima delle 5 ragioni illustrate da Romagnoli sul "diritto" di essere messi nelle condizioni di vedere The Road affinché lo si possa "giudicare da noi".

Al punto numero 1 Romagnoli scrive: "questo film è figlio di una grande opera letteraria. Per quel che vale, una giuria incaricata da questo giornale l' ha eletta miglior libro dell' ultimo decennio. Il pubblico concorda: nella fascetta dell' editore italiano, Einaudi, si annuncia "un milione di copie vendute in America" (dove ha ottenuto il Pulitzer) [...]"; e ancora: "La cupezza va bene per i lettori, ma non per gli spettatori ?".

Prendendo spunto da questo dico: come è possibile che il legame strettissimo tra letteratura e cinema vada bene per certi prodotti e male per altri? Come è possibile che l'Italia snobbi un'opera tratta da un romanzo dello stesso autore di Non é un paese per vecchi, che nell'omonima trasposizione dei fratelli Coen ha sbancato i botteghini?. Qui non si tratta, come scrive Anselmi, di gridare W The Road e ABBASSO Avatar, ma si tratta semmai di essere almeno un po' obiettivi. Io The Road non l'ho visto, ma ho letto il libro, e non posso che notare molte somiglianze con Non è un paese per vecchi. Non nella storia, certo, nè nei personaggi, ma nel messaggio di fondo, in quel modo disperato di guardare l'Umanità e il suo Futuro Prossimo. Per questo, di fronte a tutto questo, mi sento proprio come Tommy Lee Jones, lo sceriffo a un passo dalla pensione del western coeniano: molto semplicemente, non riesco a capire.

giovedì 7 gennaio 2010

IO, LORO E LARA: la recensione


Verdone dopo 27 anni veste ancora i panni del sacerdote (in Acqua e sapone era stato il "finto" Padre Michele Spinetti, alias il bidello/laureato Rolando Ferrazza) per raccontare una storia di fede perduta, di affetti traballanti, di passioni effimere. La vena dolceamara di Verdone è la stessa del filone Maledetto il giorno che ti ho incontrato, Al lupo, al lupo e Compagni di scuola, ma la regia non mostra la stessa compattezza e certe situazioni, in alcuni casi, hanno un amaro retrogusto da deja-vu.

Eppure Io, loro e Lara non è un film brutto. Non lo è per un motivo molto semplice: il cast, di altissimo livello, non fosse per la coprotagonista della pellicola, una Laura Chiatti a tratti spaesata e sicuramente non a suo agio nel ruolo ambiguo di una Lara un po' santa e un po' puttana. Le altre facce, infatti, sono tutte facce giuste, a cominciare dal fratello cocainomane interpretato da uno strepitoso Marco Giallini costantemente impegnato a tirar su col naso, ma mai una volta sopra le righe. E poi Anna Bonaiuto, psicologa nel lavoro e sorella isterica nel privato. Quindi Sergio Fiorentini anziano padre ancora sensibile alla bellezza femminile (in particolare se extracomunitaria). Infine Angela Finocchiaro - per lei venti minuti di film e il duetto comico più divertente insieme al regista.

Verdone si impegna, fa un po' troppe volte l'espressione da pesce lesso, tende ad autocitarsi, ma quando vuole riesce ancora a strappare la risata sguaiata. E sa pure toccare le corde del sentimento senza cadere in facili qualunquismi: la sequenza in cui padre Carlo sembra quasi cedere alle lusinghe della carne di fronte a una Lara, nuda e addormentata sul letto, è girata con schiettezza e senza alcuna volgarità.

Io, loro e Lara, dunque, è un prodotto riuscito a metà, che non resterà una tappa indimenticabile nel percorso registico del comico romano, ma che merita comunque una certa attenzione.

VOTO : 6,5

lunedì 4 gennaio 2010

Sant'Angelo o Santa Costanza ?


Me ne sono sempre vantato in giro. Dicevo: "Hai mai visto profondo Rosso?. No? Ma come! Devi vederlo, è un film fichissimo, e poi la sequenza d'apertura (quella in cui David Hemmings prova con la sua band) l'hanno girata nel Tempietto di Sant'Angelo!". Tutto vero? Pensavo di sì; poi leggo un articolo su La Stampa (di oggi, 4 gennaio 2010) che parla delle nuove tendenze in fatto di vacanze. La gente non vuole più vette innevate e spiagge caraibiche: la gente vuole sentire un brivido e allora fa a gara per assicurarsi una visita, o magari un soggiorno, in una casa infestata. L'articolo specificava che meta di questi coraggiosi turisti erano pure ville e manieri per nulla infestati, ma passati alla storia per essere stati set cinematografici di altrettanti film dell'orrore.

Da qui il passo è breve. Sul giornale c'è una fotografia di Villa Scott (la villa del "bambino urlante") di Profondo Rosso. La villa non è a Roma, come vuole la trama del film, ma a Torino. Del resto a Torino è girato quasi tutto il film - valga come esempio la Fontana del Po dove Marc (Hemmings) e l'ubriacone hanno la conversazione che precede l'assassinio della medium -, anche se Roma ha la sua parte di notorietà col Liceo Mamiani che fa da sfondo notturno alla scena della ricerca del "disegno" dell'assassino. Ma non divaghiamo. Con la pellicola di Argento in testa vado su internet e digito "luoghi del set di Profondo Rosso" e cosa scopro? Che la sequenza d'apertura, il mio cavallo di battaglia, in realtà sarebbe stata girata nel Mausoleo di Santa Costanza a Roma!

Internet e wikipedia mentono. Oppure no? Cerco immagini del Mausoleo e scopro che la struttura è pressoché identica al tempietto. Proprio la copia sputata, sia fuori che dentro. Mi dico: che stupido! Poi però scopro che Perugia col film c'entra, visto che la scena del funerale della medium è ambientata nel Cimitero Monumentale. Dunque nel 1975 Argento si ritrovò a girare sia a Roma che a Perugia.
Ma allora? Sant'Angelo o Santa Costanza.

sabato 2 gennaio 2010

VINCERE: la recensione


Apro il mio dizionario del cinema Morandini 2010. Nuovo fiammante. La mia Bibbia personale da almeno dieci anni. Una Bibbia da rispettare e (talvolta) da criticare. Tra i film usciti nell'arco del 2009, Morando-Laura-e-Luisa hanno concesso le ben note 5 stellette (il massimo possibile) a due pellicole soltanto: Gran Torino di Eastwood e Vincere di Bellocchio. Il primo me l'ero visto al cinema; il secondo l'ho visto ieri sera a casa di Cacile e Fabio.


Vincere è un bel film. Ma non è un capolavoro. La storia di Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini che combatte per far valere i diritti suoi e del suo primogenito Benito Albino nei confronti di un Duce irriconoscente e 'smemorato' è la parabola oltre che di una vita, di un'intera generazione di donne costrette a recitare la parte di silenziose subordinate. Bellocchio gira il suo film più femminista, quello più smaccatamente anti-italiano, il più erotico. 25 anni d'Italia raccontati dalla parte dello spettatore: il popolo inerme costretto a vivere le faccende del Bel Paese attraverso il filtro dello schermo dei ginegiornali. Il regista usa in maniera sapiente tutto questo materiale storico-visivo (un effetto Tornatore è quasi inevitabile) per raccontare il geometrico allontanamento di due esistenze finché sulla scena non resta una donna sola senza più alcuna dignità e un bianco busto di marmo dai grossolani lineamenti del dittatore. Timi è bravo ad impersonare un Mussolini coi capelli e i baffetti curati; con gli occhi spiritati e il colletto della camicia inamidato; un Mussolini di carne che neppure a metà del film scompare: quando lo vediamo riapparire nel finale, Timi veste i panni di un altro, del figlio Albino, capelli da una parte e personalità incerta. Giovanna Mezzogiorno è bravissima; è lei l'anima del film; lei, splendido giocattolo sessuale prima, volto sconvolto e sconfitto dopo, nel lungo primo piano-sequenza dell'interrogatorio.


Ma Vincere, dicevo, non è un capolavoro. Intanto la prima parte. I primi venti minuti del film sono noiosi. Almeno rispetto al resto. Troppi silenzi, troppi chiaroscuri, troppi amplessi. Sul versante onirico, poi, Bellocchio continua a non convincermi. Come in Buongiorno, notte, si fatica a cogliere i sottintesi e certe scelte appaiono forzate. Alcuni punti non vengono mai del tutto esplicitati e nel gioco di realtà e finzione (finzione del sogno, finzione delle proiezioni sul grande schermo) per uno spettatore che non conosca a fondo la Storia che lega i due personaggi non è facile collocare alcuni avvenimenti (ad esempio, donna Rachele faceva già parte della vita di Mussolini quando quest'ultimo incontra la Dalser, oppure no?). Interrogativi che a tratti rischiano di disorientare lo spettatore facendogli dimenticare che provare a rispondere ad una domanda del genere non serve a nulla. Quel che resta è comunque una donna distrutta che piange e ride commossa di fronte a Chaplin che riabbraccia il suo Monello.


LA SCENA CULT: La Dalser-Mezzogiorno si arrampica sulle sbarre del manicomio seguita a ruota dalle altre matte. Richiama l'attenzione di un gruppo di ragazzini che si aggirano fuori del muro di cinta e gli vomita addosso tutta intera la sua verità. Quindi li implora di diffondere le lettere che ha scritto, che tiene nella mano e che non vuole consegnare alla Madre Superiora. I ragazzini, dopo un momento di incertezza, mostrano il braccio destro alzato e iniziano a insultarla, intonando una canzone fascista. Ida lancia le lettere, una per una oltre le sbarre, ma non ha abbastanza forza e i fogli ricadono nel giardino del manicomio dove una suora meticolosa sta già facendo pulizia.